I rivenditore livornese mi disse che erano "Pappagalletti del sorriso", ma io, in verità, non ho
mai trovato questo nome nei libri in italiano che trattano di Psittaciformi. Ne possedeva due, alloggiati in una gabbia
da salotto di media grandezza, attaccata al trespolo.
Di piumaggio prevalentemente verde, soffuso di giallo sulla fronte e ai lati della
testa, avevano iride bruna, becco grigiastro, zampe grigio
chiaro e coda molto corta. La taglia era quella dei roseicollis:
nel comportamento ricordavano le Amazzoni allevate "a mano". Sono nati in cattività e molto domestici: me li ha portati una
signora straniera che è ritornata in America", chiarì. Così dicendo li fece uscire dalla gabbia,
porgendomene uno che mi salì, senza alcuna paura, sul dito proteso ad
accoglierlo. Mi piacque e decisi di acquistarlo. Lo pagai quindicimila lire,
piuttosto caro per quei tempi (eravamo nel gennaio del 1970), ma ne valse la
spesa. Abitualmente alloggiava in una gabbia per Canarini, ma il suo posto
preferito erano le spalle: le mie e quelle di mia moglie, dimostrando una netta
preferenza per lei. Per raggiungere il suo scopo, dato che
non poteva volare perché gli erano state tagliate le remiganti, come sono
soliti fare con i grandi Pappagalli, non esitava a buttarsi a terra, anche
dall'alto e, camminando con un passo lento e dinoccolato, dirigersi verso di
noi. Una volta ai nostri piedi saliva sopra le scarpe e aiutandosi con il becco
riusciva ad arrampicarsi. Si metteva allora a becchettare delicatamente un
orecchio o una guancia, con gli occhi socchiusi e le penne della testa
leggermente rialzate.
Considerato dal nostro punto di vita, sembrava dividesse le persone in tre categorie:
simpatiche, indifferenti e antipatiche. Da quelle che gli andavano a genio si faceva toccare e accarezzare; dalle indifferenti si
scansava, appena allungavano una mano; per le antipatiche potevano essere guai.
Tra quest'ultime vi era una donna, una certa Mary, che tre volte alla settimana veniva a riordinare la casa e nei confronti
della quale dimostrava chiari segni di avversione, agitandosi e gridando al suo
apparire.
Un giorno Mary, visto che lo stavo accarezzando sulla
testa, ebbe l'infelice idea di fare altrettanto, introducendo un dito tra i
ferretti della gabbia; ricevette una beccata che le produsse una profonda
ferita. Non tollerava di essere maltrattato.
Mia moglie, un pomeriggio, tutta indaffarata intorno ai fornelli, non si
accorse che Joe, così lo chiamavamo, attaccandosi alla piega dei suoi
pantaloni, piano, piano le era salito lungo il corpo. Sentendo qualcosa a
contatto del collo, istintivamente, con un grido vi assestò un gran colpo con
la mano, scaraventandolo in malo modo a terra. Poco dopo mia moglie gridò di
nuovo, ma questa volta di dolore: il vendicativo Joe, arrampicatosi di nuovo
sulle spalle, le aveva affibbiato una poderosa beccata a un orecchio, facendolo
sanguinare. Quando ci vedeva seduti a tavola per il pranzo o per la cena, se
non avevamo l'accortezza di portarlo in un'altra stanza, non ci dava pace.
Cominciava a cantare a gran voce (Il richiamo somigliava a quello
dell'Ondulato, ma era più forte) per essere liberato, tirando
contemporaneamente con il becco, facendoli vibrare, i ferretti della gabbia in
modo da ricavarne un suono simile a quello di una chitarra scordata. Appena
accontentato, saliva sulle nostre spalle; poi camminando sul braccio arrivava
fino alla mano per prendere della carne dalla forchetta o intrufolare la testa
nel bicchiere o nella tazza del caffè mentre noi bevevamo. Era veramente
spassoso vederlo stringere nella zampa, tenuta sollevata, un pezzetto di insaccato pepatissimo o un cioccolatino e iniziare a
mangiarli.
Senza dubbio lo avrebbe fatto se noi non l'avessimo impedito. Dopo più di due anni,
nell'estate del 1972, il piccolo Pappagallo trovò una finestra aperta e volò
fuori (non avevo più provveduto a tagliare le penne
delle ali). Rimase per circa un'ora sulla cima di un alto albero al di là della strada, insensibile ai miei
richiami. Poi scomparve e non lo rividi e sentii più.